Ricordando Caterina

Questo modesto sito web nasce con un semplice intento: ricordare la memoria di Caterina. Si tratta di un piccolo spazio che vuole essere un regalo alla sua memoria. Uno spazio semplice, adeguato a una persona che in vita ebbe un cuore grande, facendo del bene ai veri bisognosi.

giovedì, dicembre 30, 2004

Una piccola pagina di ricordi.

Un pomeriggio di Ottobre. E’ quasi sera e io sono ritornato nella tua casa. Fuori c’è il tramonto e l’orizzonte si tinge di rosso. Apro la porta di casa con la tua chiave. Era quella che tenevi appesa al collo, per non dimenticarla. Come eri felice quando riuscisti a trovare il modo di non dimenticare da qualche parte la chiave di casa. Quel portachiavi era diventato il tuo simbolo, la tua felicità. In un solo colpo avevi annullato ottantadue anni di età avanzata ed eri ritornata bambina. Sono apparentemente calmo. Entro a casa tua senza fare rumore, in punta di piedi, in silenzio, con rispetto. Sentivo il bisogno di vedere di nuovo le tue cose. Avvertivo una ansiosa sensazione di necessità a rivedere i tuoi luoghi. Lo sai, quei luoghi ti hanno vista protagonista assoluta, come un’attrice consumata sul suo palcoscenico. A casa tua e anche alla clinica eri l’unica artista. Recitavi contenta e vivevi felice. Ho aperto la porta, l’ho rinchiusa delicatamente dietro di me e mi sono diretto nella camera da letto. Filtrava una debole luce vespertina dalle finestre del soggiorno e facevo fatica a vedere nitidamente le cose. Ho provato un forte impulso a guardare il letto dove ogni notte avevi sempre dormito. Nei pochi secondi che mi hanno diviso dalla camera mi venne in mente la possibilità di ritrovarti tra le lenzuola, distesa che dormivi, come se nulla fosse accaduto, come se tutto fosse stato un clamoroso sbaglio. Ma è stato solo un attimo. Un fugace pensiero mi richiamò alle cose terrene e alla impossibilità dell'evento. La triste realtà mi stava dinnanzi, nella solitudine della tua casa e del mio animo. Le lenzuola del letto erano ordinatissime. Bianche con un merletto grazioso. Vi era anche uno svoltino del lenzuolo che interpretai come una civetteria da donna che tu avevi voluto lasciare in camera. La bottiglia d’acqua, che tenevi sempre vicino a te per ingoiare le pillole, era ancora là, quasi piena. I cuscini erano al loro posto. Ho guardato intorno al letto. Il tappetino era sistemato in maniera ordinata e simmetrica. La sveglia sul comodino faceva un tic tac delicato, come se avesse percepito la gravità del momento e avesse deciso di non infastidirmi. Mi inginocchiai dal lato dei piedi del letto, accarezzai la coperta verde con la mano, cercando di eliminare qualche piccola piega rimasta su di essa e un nodo alla gola mi prese, forte, intenso, insopportabile. Dissi ad alta voce: “Ciao mamma”. Fu un errore. Al solo sentire quella parola, scoppiai in un pianto incontrollabile, pieno di disperazione. Nonostante le lacrime agli occhi che cadevano copiosamente sul mio viso, mi ripresi subito, pensando all’inutilità del gesto. Quante volte avevo pianto in gioventù dinanzi a te, magari per commuoverti, per farmi dare il permesso di uscire con i miei compagni la sera. Ma adesso, tutto questo non aveva senso. Non avevo mai pensato che tu potessi morire. Non ero abituato all’idea. L’ho sempre temuta, e poi tu eri così forte. E piena di vita. E d’un tratto mi sentii perduto. Per scrollarmi quella preoccupante sensazione di scoramento mi alzai e aprii un’anta dell’armadio. Vidi ben allineati i tuoi vestiti estivi. Era uno spettacolo piacevole osservare l’ordine e la precisione con i quali erano stati da te sistemati. Non era una novità.Tu eri famosa per l’ordine delle cose che regnava nella tua casa. Guardai sul piccolo tavolo che avevi in camera. Su di esso, accanto alla macchina da cucire, la famosa Singer, c’era anche il “pomodoro” pieno di spilli e aghi che tenevi a portata di mano per cucire. Lo guardai e mi venne subito in mente quando da ragazzo mi pagavi mezza lira per ogni ago che ti riempivo. Quaranta aghi, venti lire. Fu il mio primo lavoro in assoluto. Mi guadagnavo una paghetta modesta ma concreta, che mi consentiva di avere qualche spicciolo in tasca e far fronte alle piccole spese con i miei compagni di strada. Ero orgoglioso di te che alla mia giovane età mi riconoscevi il diritto di guadagnare del denaro senza costringermi a chiedertelo esplicitamente. Oh, mamma. Perché sei andata via! Cara dolce straordinaria mamma. Incommensurabile essere umano, pieno di affetto per tutti, perché non sei ancora immersa nelle tue piccole grandi cose di sempre? Non è più così. A casa tua, nella penombra della camera da letto intravvedevo a fatica la sala da pranzo, anch’essa con le luci spente e le finestre chiuse. Buio e silenzio dappertutto, come non mai. Tu che amavi la luce, i suoni, il movimento, adesso c’era solo immobilità. Adesso c’era silenzio, quiete, immutabilità. In quel momento, per placare il mio tormento avevo bisogno di pace. Ma non la trovavo. Tormento e disperazione erano lì, a volontà. Nulla sarà più come prima, pensai. A chi chiederò adesso aiuto se ne avrò di bisogno? Mamma, perché mi hai lasciato? Lo so che pensavi fosse un tuo dovere non pesare su di nessuno. Lo so. Lo so che era necessario per te lasciarmi e andare incontro alla vita eterna. Lo so. Ma come farò adesso io, nella solitudine del mio mondo, senza di te? Sapevo, ed era nell'ordine delle cose, che prima o poi saresti andata via, in punta di piedi, ma non pensavo che potesse accadere così presto. Mi comprendi? Appena pochi giorni fa ti avevo lasciata tranquilla a casa alle tue faccende domestiche, alle tue telefonate, ai tuoi appuntamenti con le colleghe del volontariato, ed ero andato a lavorare. E adesso ti trovi in un’urna, fredda e inaridita, polvere tra la polvere del mondo. Mai e poi mai avrei immaginato di ricevere la telefonata con la quale mi annunciavano la tua morte. Che viaggio allucinante feci quella mattina sotto la pioggia e il traffico impazzito per venirti a vedere. Perché quella mattina il tempo non si è fermato? Perché no? Mi agito. Sto diventando nervoso. Guardo le pareti, i quadri appesi ai muri e penso alla inutilità di tutto ciò che si presenta al mio sguardo. Cose ormai senza valore che fino all’altro ieri avevano il significato della vita, dell’esistere, del presente e del domani, adesso avevano il senso della morte, del distacco, del passato. Cosa ne sarà di loro? E di me? E nel mio futuro, sopravvivrà ancora qualcosa che mi permetterà di ricordarti come oggi, con lo stesso affetto di prima? Oppure, tutto verrà dimenticato e cadrà nell’immenso oblio dell’universo che tutto ingoia a fa sparire? Non so rispondere a questa domanda. Non so prevedere. Certo, so di essere un figlio che non ha nulla da rimproverarsi. Ho sempre fatto il mio dovere di primogenito e ti ho amata sempre al di sopra di tutto. Ma è proprio così? E se invece fosse stato al contrario? Se tu mi avessi nascosto il dolore profondo della tua esistenza di donna anziana, se mi avessi tenuto all’oscuro delle tue paure, delle tue inquietudini, impedendomi di comprendere i brutti momenti che stavi attraversando, è proprio vero che non avrei nulla da rimproverarmi? Siamo proprio certi? Mi alzo dalla poltroncina di velluto verde, quella che tu avevi voluto perché ti piaceva tanto. Il verde è sempre stato il tuo colore preferito. Si. Avevi molte cose belle in verde che ti rendevano felice. La sopraccoperta del letto, il puffo, il lampadario, il cuscino della sediolina. Anche il telefono e la sveglia erano verdi. Ed erano verdi la abat-jour con la coroncina del rosario posta tutta intorno al paralume, i piccoli putti appoggiati sulla servant, e persino la grande foto incorniciata della via principale del tuo paesello natìo aveva un che di verde.Ma soprattutto avevi gli occhi verdi, belli, da ammirare. E poi, i tuoi foulard verdi, gialli, arancione, fucsia, messi li ordinatissimi sull’anta del vecchio stiracalzoni Reguitti. Arcobaleni di colori e meraviglie cromatiche che evidenziavano tutte le sfumature della vita. Simboli di gioia, di felicità, di allegria. Amavi vestire di verde e ne eri contenta. Adesso, il verde che inonda la tua camera è diventato grigio, color cenere, spento, senza luce. Nulla è più come prima. Le onde del tempo hanno spazzato via la bellezza di ciò che ti ha circondato fintanto che sei stata in vita. Amavi circondarti di piccole cose che io apprezzavo poco ma che mi confermavano la tua voglia di vivere, la gioia di donarti agli altri, alle vecchine della clinica, come li chiamavi tu, di fare, di cucinare e dare da mangiare a quel povero vecchio che ti chiedeva la carità, di rendere felici gli altri. E adesso non ci sei più. Cara dolce e fantastica mamma. Ciao. Non ti dimenticherò. Non ti sarà facile sbarazzarti di me.

Enzo

1 Comments:

At 6/1/05, Anonymous Anonimo said...

Ci piace ricordarla nei momenti migliori, quando ci incontravamo nelle riunioni familiari e nelle ricorrenze: a casa sua, da Emanuela o al Divino Amore. Abbiamo ammirato Rina per quello spirito di abnegazione ed altruismo che erano nel suo DNA come la cosa più naturale del mondo: la sua vita è sempre stata "spesa" per gli altri nel volontariato quotidiano presso la Clinica S. Lucia, nei viaggi con gli ammalati a Lourdes e in mille altri esempi di dedizione, anche a costo della sua salute. Il giorno di Ferragosto rinunziava a trascorrere al mare almeno una giornata, per non lasciare soli i suoi malati. Mentre era ricoverata all'Ospedale S. Eugenio ci venne spontaneo consigliarle di rallentare un pò i suoi impegni, ma le sue precise parole furono queste: "Se non spingerò più le carrozzelle, posso sempre fare tanto per chi ha bisogno". Grazie Rina per tutto quello che ci hai insegnato. Non potremo mai dimenticarti e siamo certi che un giorno ci rivedremo Lassù. Carmelo e Lucia

 

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